Il web che ci cambia la mente come il gioco d’azzardo

da | 5 Luglio 2024

Se non sai leggere l’ora su un orologio a lancette, probabilmente fai anche fatica ad allacciarti le scarpe. Non è una semplice correlazione, ma un rapporto di causalità che ha a che fare con il nostro rapporto con il digitale (tra cui c’entra anche il gioco d’azzardo). Una questione di salute pubblica che riguarda sia i nativi digitali sia chi ha più di 30 anni, ossia chi è nato prima di Internet.

Leggere l’ora su un orologio analogico non è infatti la stessa cosa che farlo con uno digitale. Così come scrivere in corsivo è molto diverso rispetto a scrivere in stampatello. Imparare leggendo è tutt’altra cosa che apprendere attraverso immagini. Le differenze dipendono dal modo in cui dobbiamo usare e attivare il cervello per raggiungere il nostro scopo. Nel caso dell’orologio digitale, della scrittura in stampatello e dell’apprendimento per immagini il cervello viene attivato, usato e dunque sviluppato in modo meno profondo e consapevole. Ormai tutti gli studi in merito sono concordi sul fatto che il digitale semplifichi i percorsi mentali e quindi gli sforzi, riducendo così progressivamente anche le nostre capacità cognitive.

Questo non significa che il digitale e il web siano totalmente negativi né che serva un proibizionismo su tutti i fronti (che peraltro sarebbe impossibile, data la pervasività del digitale nelle vite di tutti i noi). Significa però che il funzionamento del digitale impatta in modo decisivo sul nostro modo di pensare e dunque di esprimersi, di relazionarsi, di apprendere, di comunicare, di lavorare, di provare emozioni…

Siamo perciò necessariamente chiamati a domandarci: Quale è il confine oltre al quale non si può più parlare di ‘umano’? Siamo fatti più di pixel e di byte o di neuroni? Quanto siamo digitalmente modificati? La scienza sta indagando le risposte da anni e sì, oggi i bambini e gli adolescenti sono digitalmente modificati. Il loro cervello ha subito cambiamenti per quanto riguarda il modo di imparare, la capacità di mantenere l’attenzione, la capacità di prendere decisioni. È un cambiamento irreversibile? No, ma vanno cambiate le abitudini a fronte di conoscenze e consapevolezze condivise.

Sappiamo, infatti, per esempio che i bambini che nei loro primi anni di vita trascorrono più di unora al giorno davanti agli schermi hanno il 59% di probabilità in più di sviluppare problemi relazionali. Sembra anche che nei neonati con genitori, che usano eccessivamente i media digitali o comunque che li usano spesso anche durante i momenti con i figli appena nati, sia stata riscontrata una risposta emotiva molto simile a quella dei bambini con madri depresse. Sta inoltre emergendo come luso eccessivo di Internet sia correlabile a una riduzione del volume della sostanza grigia nellarea neocorticale orbito-frontale sia destra che sinistra. Si tratta della zona che regola i comportamenti, il ragionamento complesso e i processi decisionali.

copertina libro il narcisismo del you«La tecnologia digitale compie di fatto un ricablaggio delle nostre reti neurali, iperstimolando alcune funzioni a scapito di altre e riorganizzando i modelli di interazione tra persone». A dirlo da tempo sono tre psicoterapeuti che lo hanno anche scritto nero su bianco, a favore non solo degli adulti che hanno un ruolo educativo (genitori, insegnanti, educatori, psicologi e psicoterapeuti…), ma anche di chi vuole vivere con consapevolezza il cambiamento epocale in corso. Lo scrivono nel loro ultimo libro Il narcisismo del You. Come orientarsi nella clinica digitalmente modificata edito da Mimesis con una straordinaria prefazione del noto filosofo e psicanalista Miguel Benasayag. Questa pubblicazione è una vera e propria bussola per orientarsi in questa epoca complessa e in radicale mutamento. Perché il digitale implica un utilizzo diverso del cervello, più semplificato, impulsivo, più arcaico che ci induce a rispondere agli stimoli senza dover pensare, buttando alle ortiche il training cognitivo che abbiamo attuato durante tutta la nostra evoluzione. «Oggi nella Rete siamo tutti You, ossia un oggetto del Web, non più un Io che si afferma con la propria identità, bensì un avatar, un profilo, un ‘oggetto’ che produce dati».

Gli autori de Il narcisismo del You sono:
Riccardo Scognamiglio autore de il Narcisismo del YouRiccardo Marco Scognamiglio, psicologo e psicoterapeuta, fondatore dell’Istituto di Psicosomatica Integrata, direttore e docente della Scuola di Psicoterapia Analitica Individuale e di Gruppo – Nuova Clinica Nuovi Setting e formatore dell’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, GAP e Cyberbullismo.

 

 

Russo

Simone Russo, psicologo e psicoterapeuta, socio dellIstituto di Psicosomatica Integrata, direttore e docente della Scuola di Psicoterapia Analitica Individuale e di Gruppo – Nuova Clinica Nuovi Setting e formatore dellAssociazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, GAP e Cyberbullismo.

 

 

matteo fumagalliMatteo Fumagalli, psicologo e psicoterapeuta, socio dellIstituto di Psicosomatica Integrata, vicepresidente dell’Associazione Italiana di Psicologia e Psicosomatica e formatore dell’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, GAP e Cyberbullismo.

Tutti e tre sono membri del Gruppo Infanzia, Adolescenza e Parentalità dell’Association Européenne de Psychopathologie de l’Enfant et de l’Adolescent.

Le loro qualifiche le riportiamo non per piaggeria, ma per mostrare che le conclusioni e le proposte di Scognamiglio, Russo e Fumagalli sono frutto di studi, di professionalità, di pratica clinica e di confronto con esperti di altri Paesi.

 

Abbiamo chiesto a Riccardo Marco Scognamiglio anzitutto cosa sta succedendo ai nostri ragazzi, studi scientifici e casi clinici alla mano.

Pensiamo proprio a quando leggiamo l’ora. Io al polso ho un classico orologio con le lancette. Quando guardo il quadrante per accedere all’informazione che mi serve – sapere che ore sono – devo fare un processo mentale complesso che implica anzitutto l’astrazione e poi l’attivazione della funzione metaforica, ossia di quell’elemento intermedio che mi fa passare dallo stimolo (le lancette) al risultato (l’ora). Il collegamento tra i due elementi non è immediato. Infatti, il mio cervello deve fare un doppio passaggio: per prima cosa tradurre il movimento spaziale delle lancette in una misura, poi tradurre la misura in una unità di tempo.

Quale è la differenza con l’orologio digitale?

Al contrario l’orologio digitale fornisce immediatamente il risultato in un solo colpo d’occhio. In questo caso quindi il nostro cervello non fa tutto il percorso di prima e non applica le stesse funzioni cognitive. In sostanza, non si allena.

Il digitale, dunque, ci fa pensare e ragionare in modo diverso e lungo andare ci modifica il cervello?

Sì. E non tanto a lungo andare. Il training a cui ci abitua il digitale è rapido, perché il Web ci abitua, appunto, al comfort e all’immediatezza. Infatti, il pensiero digitale è semplificato, in quanto non implica processi di traduzione né di astrazione né tantomeno ci costringe ad avere una particolare attenzione. Insomma, per dirla in un altro modo: l’esempio dell’orologio ci fa capire come con il digitale il cervello, per raggiungere un determinato risultato, non attraversi tutte le aree che invece tocca durante un’operazione di tipo analogico.

Quali sono queste aree del cervello?

Sono le aree della memoria, dell’attenzione, della dimensione spaziale e del senso del tempo.

Nel libro Il narcisismo del You parlate di codice digitale. Cosa significa?

Potremmo definire il codice digitale come: 1 dito uguale a 1 lettera. Pensiamo proprio alla scrittura. Lo stampatello minuscolo – esattamente come vengono scritte le lettere sulla tastiera di pc e smartphone – rappresenta la modalità di scrittura semplificata tipica del codice digitale. Ecco perché oggi sempre più bambini e ragazzi faticano o addirittura non sanno più scrivere in corsivo. Dunque, il codice digitale è la rappresentazione della semplificazione del pensiero ad opera del digitale.

Può approfondire questo argomento?

Il corsivo implica che il cervello si coordini con il corpo, mettendo in atto passaggi cognitivi funzionali, a partire da come si tiene in mano la penna fino ad arrivare all’occhio e poi all’orecchio, dato che noi ci diciamo le parole mentre le scriviamo. Inoltre, il corsivo favorisce l’integrazione fra i due occhi e quindi fra i due emisferi cerebrali. La perdita di questa motricità fine è la stessa che poi porta sempre più bambini ad avere atteggiamenti disprassici.

Cosa significa?

La disprassia è una condizione cronica che causa difficoltà nelle capacità motorie e nella coordinazione, nonostante chi ne soffra abbia capacità cognitive nella norma. Per esempio, non sapersi allacciare le stringhe delle scarpe! Improvvisamente, dunque, quello che abbiamo imparato nel passato e che ci caratterizza come esseri umani è cambiato, anzi non serve più. E questo ha un grande e grave impatto sullo sviluppo neuromotorio.

Cosa è la gamification a cui dedicate un’ampia parte del libro?

La gamification è l’utilizzo di elementi mutuati dai giochi e dalle tecniche di creazione di giochi in contesti non ludici come: punti da accumulare, livelli da raggiungere, ricompense da ottenere, distintivi da esibire… In quest’ottica la gamification viene usata come metodologia di insegnamento che usa il gioco per favorire il coinvolgimento emotivo. Peccato però che il meccanismo alla base sia lo stesso che si attiva per le dipendenze – da sostanza e comportamentali – perché tocca il circuito della dopamina. Ecco il motivo per cui la gamification viene adottata dal marketing che si avvale in particolare delle tecniche del videogioco (punti, livelli, premi, beni virtuali, classifiche) per rendere gli utenti o i potenziali clienti partecipi delle attività di un sito e interessarli ai servizi offerti. La gamification, perciò, produce una fusione tra virtuale e reale che mantiene continuamente l’utente dentro l’esperienza dell’entertainment e del consumo. Il marketing, dunque, usa la gamification come tecnica di seduzione e di assuefazione.

Eppure, la dimensione ludica è importante per l’essere umano…

Certo, il gioco è una componente motivazionale primaria dell’essere umano. Non tutto il gioco però è ‘sano’. Ci sono delle differenze. C’è quello che si chiama play, ossia il gioco a tutti gli effetti che ha connaturata una forte valenza educativa. Certamente questa dimensione del play implica anche l’azzardo, inteso però come elemento di rischio. E poi c’è il game che introduce l’elemento della gara e dunque dell’antagonismo, pur mantenendo una componente motivazionale primaria positiva che è quella della sfida. Ovviamente, nel momento in cui si introduce l’antagonismo e quindi l’altro diventa un soggetto da battere, non esiste più la dimensione della squadra e della cooperazione che invece fa parte della dimensione del play. Tuttavia, sia il play e il game sono elementi antropologici quindi connaturati all’essere umano. Anche l’antagonismo risulta positivo, nel momento in cui si devono attuare delle strategie e dunque attingere all’apparato cognitivo per poter raggiungere un risultato.

Quando invece il gioco viene snaturato e strumentalizzato? L’altro’ non è un essere umano, ma è una tecnologia?

Con la gamification di cui l’azzardo inteso come ‘gioco d’azzardo’ è una parte predominante. Succede che in questo caso, anzitutto l’altro con cui o contro cui si gioca non è un essere umano, ma un prodotto tecnologico; in secondo luogo, non può esistere la possibilità di attuare strategie di gioco, perché tutto è deciso dall’algoritmo. Un altro aspetto tipico dell’azzardo poi è quando il sistema ci fa credere di essere noi a guidare il gioco. Pensiamo per esempio ai bollettini statistici sui numeri del Lotto. In realtà non esiste nessuna statistica, ma solo un gioco a perdere. Esiste infine un ulteriore della trappola dell’azzardo, ossia quando l’industria riesce a creare un habitat allettante e confortevole che ci fa immaginare che la macchina ci voglia bene, che sia dalla nostra parte.

Perché la gamification ci riguarda tutti, anche se non giochiamo d’azzardo e nemmeno ai videogiochi?

Perché la gamification annulla sia la dimensione del play sia quella del game. Proprio il gioco d’azzardo ne è l’esempio principale, anzi direi il paradigma. Lo scopo della gamification, infatti, è lo stesso dell’azzardo: darci l’illusione di vincere, quando l’obiettivo finale non è neppure più quello di vincere o di perdere, bensì di trattenerci il più possibile nell’entertainment e quindi nel consumo. Esattamente come fanno i videogiochi.

Ci può fare qualche esempio?

Le persone che seguiamo e che hanno una dipendenza da uso problematico o patologico del gaming ci dicono che il loro scopo non è più giocare, ma soltanto stare in un habitat in cui possono rimanere sconnessi dalla realtà. Si tratta di quella che viene definita la machine zone. Questo è l’esito finale di una strategia di marketing che viene applicata a tutti i sistemi di interazione con l’algoritmo e oggi con l’intelligenza artificiale. In poche parole, a tutto quello che ha che fare con la dimensione digitale. Oggi tutto nel web è costruito con la logica dell’azzardo.

Come?

Dando una ricompensa intermittente e continua che ci trattiene nella machine zone il più possibile… esattamente come le slot machine. Il Web è una grande slot machine senza confini.

Da genitori come possiamo intervenire?

Io girerei la domanda così: da adulti come possiamo intervenire? E per rispondere è necessario dare due presupposti. Il primo è che il digitale non è un semplice strumento e non è nemmeno un oggetto. Il digitale è un habitat in cui da 30 anni tutti siamo immersi. Tutti. Volenti o nolenti. Quindi non solo i nativi digitali, ma pure i cosiddetti boomer. In secondo luogo, quando parliamo di ritiro sociale, dobbiamo affrontarne due aspetti.

Quali?

Da una parte c’è il ritiro sociale che colpisce in stragrande maggioranza i giovanissimi e anche i giovani adulti; non parliamo solo di studenti delle superiori che non escono dalla loro cameretta, ma anche di studenti universitari che abdicano alla loro vita nel mondo reale. C’è però un altro ritiro di cui poco si parla e che è paradigmatico del malessere odierno, ossia quello degli adulti. L’adulto si è ritirato dal suo ruolo e dalla sua responsabilità educativa e dunque il giovane, di fronte a questo vuoto, rinuncia all’adultità, ossia rinuncia a diventare adulto che significa vivere nel mondo reale.

Cosa significa concretamente che l’adulto si è ritirato?

Lo spiego con un esempio: mediamente i genitori che arrivano da noi per chiedere aiuto per il figlio o la figlia che non studiano, non lavorano e non escono dalla loro stanza, si presentano dopo ben tre anni di ritiro e due bocciature! Pensavano che il disagio fosse passeggero, che fosse tipico degli adolescenti eccetera eccetera.

Quindi per tornare a cosa possono o dovrebbero fare i genitori?

Anzitutto informarsi e prendere consapevolezza della natura del digitale. Mediamente l’adulto che ha vissuto la realtà pre-digitale si limita a dire: “Mio padre bastava che alzasse un sopracciglio e io ubbidivo. Io me la sono cavata da solo eccetera eccetera”, ma oggi non si può applicare tout court l’esperienza pre-digitale agli adolescenti 2.0. Anche perché ieri l’adulto aveva una funzione normativa che poteva contare una rete sociale – non social – esterna alla famiglia – ossia la comunità – non la community. C’era dunque una continuità, coerente e collaborativa, tra dentro e fuori la famiglia. Oggi invece i giovani hanno paura dell’esterno e perciò si chiudono nel digitale, in un negazionismo della realtà sempre più diffuso.

Benasayag che firma la prefazione de Il narcisismo del You parla di deterritorializzazione prodotta dal web…

… certo, è il grande paradosso che dovrebbe interrogare chi invece stempera questa condizione che ormai è globale. Un esempio? Gli Indios dell’Amazzonia non si stanno estinguendo solo a causa del cambiamento climatico, ma anche a causa di una pressione omologante, introdotta proprio dall’uso del digitale. D’altronde al mercato serve che pure gli Indios dell’Amazzonia consumino e il web è il mezzo per assuefarli. Questa si chiama globalizzazione colonialista. Sì, è a tutti gli effetti un nuovo colonialismo. A tal proposito Benasayag parla di universalizzazione. Un altro grande paradosso: in un mondo in cui persistono gravi disuguaglianze sociali, il marketing universalizza i consumi attraverso l’induzione di falsi bisogni, tramite la tecnica della gamification.

In questo contesto cosa fa la psicoterapia?

La psicoterapia sta capendo adesso cosa fare, nel pieno dello tsunami di questo cambiamento epocale senza precedenti, indotto dal digitale. Al momento la psicoterapia ha sostanzialmente una funzione di accudimento basico, per esempio attraverso una educazione non solo emozionale, ma prima ancora sensoriale. Infatti, se l’adulto si è ritirato e non trasmette più conoscenze ed esperienze, la sua funzione viene supplita dai device digitali.

Nel libro, infatti, fate diversi esempi di casi clinici in cui agli schermi è stata affidata la funzione di caregiver, fin dalla prima infanzia.

Purtroppo, sì. Ma lo schermo non educa alle sensazioni né tantomeno alle emozioni. Perciò, se l’adulto non si è sintonizzato con il figlio o la figlia, seguendoli nei loro passaggi evolutivi, oggi noi ci ritroviamo una generazione di zombie che non sanno riconoscere le proprie emozioni, perché la loro umanità è ibridata con la macchina. La psicoterapia deve dunque farsi custode di quella dimensione profondamente umana, fatta di inciampi, tracce, deformazioni della realtà, dissociazioni, rimozioni e difese che non riusciamo ancora a immaginare possibile per la macchina. Quella che Benasayag ha chiamato la singolarità del vivente.

E la scuola che ruolo ha oggi?

Per rispondere serve anzitutto chiederci: A cosa serve la scuola? La scuola non è solo un passaggio di informazioni e non ha unicamente una funzione normativa. Se fosse così, allora il Web avrebbe già vinto. Ormai, infatti, la maggior parte delle nozioni possiamo tranquillamente trovarle in Rete. Quindi il punto non è chiederci se la scuola debba essere digitalizzata oppure se sia utile proiettare lo studente nell’antica Roma attraverso il Metaverso, affinché faccia esperienza della Storia per poterla assimilare meglio. Piuttosto il tema è quello di mettere lo studente al centro della relazione umana, in quanto fonte primaria e imprescindibile di apprendimento e di crescita. In caso contrario stiamo pensando esattamente come pensa la macchina e dunque abbiamo già perso. La scuola va concepita come un altro habitat, come un luogo realmente umano di crescita e di maturazione.

A chi dice: “Ma che esagerazione! Le forme di disagio giovanile sono sempre esistite”, cosa risponde?

Rispondo con il caso di cronaca di una adolescente inglese, Molly Russell, che stava attraversando un periodo depressivo, ma non patologico. Un po’ di down come spesso accade in adolescenza. E così ha fatto qualche ricerca, interrogando la Rete sui motivi dei sentimenti depressivi e dei possibili desideri di suicidio. Ecco che l’algoritmo si è attivato, cominciando a offrire il prodotto ‘depressione&suicido” con contenuti continui. Alla fine, nell’isolamento della sua cameretta, senza un confronto con un altro essere umano, la ragazza si è tolta la vita. La capacità di amplificazione esponenziale del Web rischia di far diventare patologico ciò che ancora non lo è e poi di renderlo pandemico. Siamo dunque fatti più di byte e di pixel o piuttosto ancora di cellule neurali? Quale è il confine tra il reale e il virtuale? Ecco perché noi parliamo di dimensione virtureale.

Cos’è dunque questo Narcisismo del You tipico della dimensione virtureale in cui siamo immersi?

È il narcisismo a cui ti riduce lalgoritmo che ti fa vivere come un You continuamente bisognoso di gratificazione narcisistica che però non ha niente a che fare con te, con il tuo Io. Mentre tu credi di guardare il Web, non sei più tu il soggetto che guarda, ma è il Web che ti guarda. E così ti guardi, ma non riesci più a vederti. Tutti siamo ormai un popolo di You prigionieri della Rete, che viviamo nel virtureale che non è la realtà.

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