Angela Biscaldi: Come non farsi cambiare il cervello dalla dipendenza digitale

da | 10 Ottobre 2022

Cosa c’entrano i new media con il gioco d’azzardo? Esiste una correlazione tra la dipendenza da internet e/o da social media e il disturbo da gioco d’azzardo? Ma perché continuiamo a definire ‘new media’ mezzi di comunicazione che ormai sono tutt’altro che nuovi?

La vita come un gioco non può prescindere da queste domande, soprattutto quando ci sono le persone giuste che possono dare le giuste risposte. 

Una di loro è Angela Biscaldi, antropologa che insegna all’Università degli Studi di Milano presso il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche.

«Meglio effettivamente chiamarli media digitali, anche se l’aggettivo new giustamente testimonia che è la prima volta nella storia che uno strumento di comunicazione diventa così pervasivo nella vita di ognuno di noi. Ogni nuovo medium quando viene introdotto nella società genera cambiamenti, non solo nelle abitudini, ma anche da un punto di vista cognitivo, per poi diventare uno strumento e una presenza sentiti come naturali nella vita quotidiana, proprio come è successo alla radio, al telefono e alla televisione. Tuttavia i media digitali hanno in sé connaturata una novità: l’azione di modellamento del nostro cervello, in quanto sono incorporati nelle nostre azioni quotidiane. Sono a tutti gli effetti delle protesi. Inoltre contengono pezzi della nostra vita – dal lavoro ai documenti ai ricordi- ed entrano nelle nostre abitudini, influenzando addirittura, per esempio, la gestualità. Basti pensare a come teniamo in mano il cellulare e a quante volte controlliamo le notifiche senza rendercene conto».

Un po’ come ha detto – ironicamente ma non troppo – il noto psicoterapeuta Paolo Crepet: “Anche mia nonna rimase colpita quando le installarono in casa il primo citofono, ma non ci rimase attaccata tutto il giorno!”

Come capiamo che stiamo usando in modo disfuzionale i media digitali?

L’utilizzo che potremmo definire anche come ‘rapporto’ con i media digitali diventa dannoso quando anziché implementare le nostre relazioni sociali, si sostituisce ad esse. Come dice l’antropologo Simon Sinek, se al mattino quando mi sveglio anziché dire buongiorno alla persona che amo, guardo lo smartphone e mi dimentico di chi ho intorno, significa che ho una dipendenza.

Quali sono i comportamenti disfunzionali indotti dai media digitali?

Sono quelli che inducono al controllo della relazione. Pensiamo a quante volte controlliamo se c’è la spunta blu oppure quando il fidanzato si è connesso l’ultima volta oppure andiamo in ansia se la figlia non risponde subito al messaggio… Si tratta anzitutto di un sistema di comunicazione che controlla l’altro. Prima era normale non sapere dove fosse l’amico o che cosa stesse facendo in quel preciso momento, oggi invece c’è l’ansia del controllo. 

Pensiamo poi anche alle app che i genitori installano negli smartphone dei figli. L’eccessivo controllo rischia di non basare l’educazione sulla progressiva responsabilizzazione e sulla conseguente graduale cessione di fiducia ai figli, processi fondamentali che devono far parte della crescita. 

Poi c’è l’attitudine al multitasking che i media digitali inducono per loro natura e che rende difficoltosa la capacità di concentrazione. Non c’è insegnante che oggi non rilevi come i bambini e i ragazzi facciano molta fatica a mantenere l’attenzione per un periodo di tempo che superi il quarto d’ora. Ma d’altronde una story di Instagram dura 15 secondi e Tik Tok ha ulteriormente accelerato questa evaporazione della concentrazione. 

Per esempio molti giovani e giovanissimi hanno perso la capacità della concentrazione profonda e il recupero di queste facoltà cognitive è molto difficile. Infine il Covid ha reso ancora più difficile la richiesta di attenzione esclusiva, perché i docenti hanno di fatto legittimato l’ingresso massiccio del digitale negli apprendimenti. 

E poi ci sono i social media…

Qui interviene un’ulteriore categoria di comportamento indotto: la rappresentazione del sé. La comunicazione social induce a pensare questa equazione: Io valgo per come appaio (e per i like che ricevo). Si tratta di un rischio soprattutto nel periodo adolescenziale, in cui avviene la costruzione della propria identità personale. I social media, per come sono concepiti, costruiti e pubblicizzati, inducono comportamenti narcisisti ed egocentrati e possono invece inibire i comportamenti pro-sociali importanti per il benessere dei nostri figli.

Cosa dunque possiamo dire e soprattutto fare per i giovani che sono i ‘nuovi’ esseri umani a cui è affidato il futuro?

Dobbiamo promuovere  un’educazione digitale che comprenda non solo la conoscenza tecnica del mezzo, ma anche la conoscenza del funzionamento comunicativo e antropologico del digitale; invece i giovani sono di fatto per la maggior parte abbandonati in compagnia di questi strumenti, senza trovare spazi di confronto e riflessione critica. Notifiche, scroll, contenuti 24 ore su 24, sempre accesi, sempre luminosi, sempre a portata di mano… parte di sé e della propria quotidianità insomma. Senza uso consapevole il rischio è la dipendenza.

Cosa significa avere o non avere spazi di riflessione a causa dell’uso patologico del digitale?

Significa saper gestire la noia, significa saper riconoscere e gestire l’ansia, significa saper indagare su chi siamo, come ci sentiamo, perché proviamo determinate emozioni. Significa saper ragionare. Significa non avere il bisogno frequente e  compulsivo di scrollare o di chattare, perché ci si sta annoiando oppure si è un po’ giù di morale e quindi col digitale si colma rapidamente il proprio senso di vuoto. 

D’altronde fin da piccoli abbiamo abituati i nostri figli a riempire tutti gli spazi vuoti con qualcosa, una specie di horror vacui: lo sport, le lezioni di piano e di inglese… Il modello educativo attualmente dominante, infatti, è improntato sulla performance, quasi avesse paura della noia che invece è un’occasione di riflessone, creatività e crescita personale. I social in particolare sono il prolungamento di questo modello educativo, perché sono concepiti proprio per riempire gli spazi vuoti, catturando in ogni momento la nostra attenzione. Senza spazi da riempire in autonomia, riflessione e di autoriflessività non si può diventare adulti responsabili.  Al momento invece stiamo vivendo un grande paradosso.

Quale?

Diamo libero accesso al digitale pensando che sia uno spazio protetto perché ci illudiamo di poter controllare i nostri figli che lo abitano, mentre i ragazzi lo considerano uno spazio libero in cui esprimersi. Invece è uno spazio di dipendenza che è il contrario della libertà e della sicurezza.

Come dunque affrontare le dipendenze da digitale che intersecano anche quella da gioco d’azzardo soprattutto dei più giovani?

Il primo step è affrontare la noia che va di poi di pari passo con la gestione del controllo. Gli adulti (a partire dai genitori) inoltre dovrebbero cominciare a dialogare con i ragazzi, facendoli riflettere con domande come:

Perché hai scelto questa foto?

– Cosa comunica di te?

– Perché hai usato questo filtro per modificare i tuoi connotati?

– Quale messaggio vuoi mandare con questo contenuto?

– Quale messaggio pensi che arrivi agli altri con questo contenuto?

E non da ultimo c’è la scuola che è segnata da una grande frattura tra il linguaggio usato in classe e quello dei ragazzi. Questo genera incomunicabilità e quindi incomprensione.

Cosa potrebbe fare la scuola?

In attesa di una seria riforma educativa a livello istituzionale che non perdo la speranza possa esserci (anche se al momento non vedo una volontà politica a riguardo), si potrebbero per esempio fare corsi di videomaking che insegnino a leggere e decifrare le immagini oltre i consueti incontri sul cyberbullismo che vanno bene, ma non sono sufficienti. In esterna sintesi serve un modello educativo alternativo.

Come lo immagina?

Anzitutto con una riforma che arrivi dal Ministero dell’Istruzione con un aggiornamento dei programmi scolastici e delle metodologie didattiche; parallelamente con l’impegno delle singole scuole come si diceva sopra e infine creando spazi di discussione (ed educazione) per i genitori e i giovani.

Nelle scuole, oltre che nelle università, lei ci è entrata, tanto da farne un libro che consigliamo a tutti di leggere: Una settimana senza social. Un progetto che è stato anche una provocazione.

Era l’anno scolastico 2016/2017 ed eravamo in un liceo di Crema. Abbiamo fatto una proposta agli studenti e alle studentesse: una settimana senza Social! E da allora questa singolare esperienza si è moltiplicata, riproposta in diverse scuole e realtà associative italiane. Essendo una proposta, formulata nei termini di libera scelta e responsabilità personale, la maggior parte l’ha accettata. Quella prima volta solo 3 ragazzi su 46 ce l’hanno fatto, ma interessanti sono stati i loro commenti. Un ragazzo mi ha detto che era in fila al supermercato senza il cellulare e in quei “10 minuti di niente stavo male”. Una ragazza, invece, mi ha detto che in auto senza il cellulare “per la prima volta dopo tanto tempo ho guardato fuori dal finestrino e mi sono stupita!”. Tutti hanno detto che da soli non ce la fanno e che hanno bisogno di un aiuto per usare in modo corretto i media digitali. Si è trattato di una presa di consapevolezza molto importante. La proposta del libro è quella di conoscere i cambiamenti legati all’uso delle tecnologie e utilizzare le nostre conoscenze per potenziare le capacità dei nostri figli e per insegnare a usare la rete e i social come una risorsa, senza abusarne ed esserne dipendenti. Per fare questo non serve l’ottica del controllo e del proibizionismo assoluto, ma nemmeno e quella del permissivismo che li abbandona loro stessi. Serve puntare sulla responsabilizzazione e sulla condivisione con le nuove generazioni di un nuovo linguaggio, nuove competenze, nuove regole per la comunicazione in rete. E soprattutto di una nuova etica della comunicazione social e digital.

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