«È solo un gioco». Quante volte i familiari di chi gioca d’azzardo hanno sentito questa frase? Quante volte hanno voluto crederci, sperando che fosse vero, che bastasse un po’ di volontà per smettere? La realtà è diversa. Il gioco d’azzardo patologico è una malattia riconosciuta, che devasta la vita di chi gioca e di chi gli sta accanto. E spesso inizia in modo banale: qualche gratta e vinci al bar, una scommessa sportiva, un momento di solitudine da riempire.
La donna che ha scritto la testimonianza che segue non avrebbe mai immaginato di trovarsi a gestire la pensione di suo padre, a nascondergli il portafoglio, a dovergli dire “no” come se fosse un bambino. Non avrebbe mai pensato che le parole “usura” e “debiti” sarebbero entrate nel vocabolario quotidiano della sua famiglia. Eppure è successo. E succede a decine di migliaia di famiglie italiane ogni anno. Questa è la storia di un padre vedovo che ha trovato nei gratta e vinci una fuga dalla solitudine. È la storia di una figlia che ha dovuto imparare a essere forte, a chiedere aiuto, a non lasciarsi distruggere dalla malattia di chi ama.
È la storia di tanti familiari di giocatori d’azzardo che oggi si sentono soli, giudicati, esausti. Ma che possono trovare la forza di reagire. Per questo ti ricordiamo il nostro servizio gratuito di supporto per le famiglia qui
La storia d’azzardo di mio padre
Non avrei mai pensato di trovarmi in questa situazione. Mio padre è sempre stato una persona normale, un bravo lavoratore, un buon marito. Poi mamma è mancata, e tutto è cambiato. All’inizio sembrava una cosa da poco. Dopo essere andato in pensione, papà aveva tanto tempo libero. La casa era vuota senza mamma, e lui si sentiva solo. Ha cominciato a comprare qualche gratta e vinci al bar, mentre prendeva il caffè. “Così impiego il tempo”, diceva. “È solo un gioco”. Ma non era solo un passatempo. Nel giro di pochi mesi, papà andava al bar due, tre volte al giorno. Comprava sempre più gratta e vinci. Quando vinceva qualcosa, era felicissimo e mi chiamava subito. Quando perdeva, voleva rifarsi: “La prossima volta vinco sicuro”, ripeteva sempre.
Ho cominciato a preoccuparmi davvero quando ho scoperto che si stava giocando la pensione. Tutta. A fine mese non aveva più soldi per fare la spesa. Io e mio marito abbiamo iniziato a portargli da mangiare, a pagargli la bollette. Ma i soldi che gli davamo finivano subito nei gratta e vinci. Poi è arrivato il momento peggiore: i debiti. Papà aveva chiesto soldi in giro, aveva fatto debiti che non poteva ripagare. Quando ho scoperto che stava per rivolgersi agli usurai mi sono sentita morire. Ho avuto paura per lui, paura che gli potesse succedere qualcosa di brutto. Anche perché ignoravo che nel nostro quartire fosse così facile che uno strozzino attaccasse bottone con un anziano che vedeva ‘giocare’ molto e che lo aspettasse fuori dal bar!
Mi sono sentita completamente sola. I fratelli di papà e i miei cugini, invece di aiutarmi hanno solo giudicato: “È un irresponsabile”, “Come ha potuto ridursi così”, “Alla sua età dovrebbe avere più giudizio”, “Sarà un principio di demenza senile”. Nessuno capiva che papà era malato, che non riusciva a smettere anche se voleva.
Per fortuna ho trovato un centro antiusura. Non è stato difficile cercarlo online. Lì ci stanno aiutando a sistemare i debiti, piano piano. È una strada lunga, ma almeno non siamo più soli davanti a questo problema. Loro mi hanno spiegato che il gioco d’azzardo patologico è una malattia.. Adesso papà esce di casa con solo 5 euro in tasca. Io gestisco la sua pensione, pago le sue spese, gli do i soldi per gli acquisti necessari. Ma è durissima. Lui si arrabbia, dice che lo tratto come un bambino, che non si fida di me. A volte mi chiede soldi con le scuse più strane e devo dirgli di no. È straziante. La cosa più difficile è che papà non ammette di essere malato. Secondo lui può smettere quando vuole, è solo che “ho avuto un periodo sfortunato”. Rifiuta di andare dallo psicologo, dice che non è pazzo, che non ne ha bisogno. Ho provato a parlargli tante volte, con calma, con rabbia, piangendo. Niente da fare.
Alla fine, su consiglio del centro antiusura, ho deciso di andare io dallo psicologo. All’inizio mi vergognavo un po’, pensavo: “Sono io quella sana, è lui che dovrebbe andarci”. Invece è stata la cosa migliore che potessi fare. Ho capito che non sono sola, che tante famiglie vivono quello che vivo io. Ho imparato a gestire meglio le situazioni difficili, a non farmi sopraffare dai sensi di colpa, a mettere dei limiti senza sentirmi una figlia cattiva. Mio padre forse non guarirà mai. Forse non riconoscerà mai di avere un problema. Ma io ho imparato che posso prendermi cura di lui senza distruggermi, che chiedere aiuto non è una debolezza, e che questa malattia colpisce tante famiglie, non solo la nostra.
Se state vivendo una situazione simile, vi dico: non aspettate. Chiedete aiuto subito. Ci sono centri che possono supportarvi, per i debiti e anche psicologicamente. E ricordatevi che anche voi, familiari, avete diritto di essere aiutati. Non siete soli.

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